mercoledì 23 luglio 2014

illustrazione per il manifesto di "ottobre piovono libri"


illustrazione per brochure "ottobre piovono libri"

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lunedì 21 luglio 2014


Apertio libri
di Ciccagnoli

Non riesco a smettere di pensarti e per questo, da un po’, ho preso a consultare i libri che mi ritrovo attorno. In cerca di un po’ di sollievo ne interrogo gli autori convinto che dicano il vero. Se mi dici che andrai a vedere Shakespeare nel parco, prendo la mia copia della Dodicesima notte nell’edizione azzurrina di Yale, e mi affligge ritrovare un «nay» al posto di un «no». Ma la voce arcaica lascia spazio all’errore. Non è del tutto certo che tu non mi stia più pensando.
Prendo il libro di Miranda July, No one belongs here more than you, assolutamente giallo e con la foto piccola sul retro che mi fa sempre pensare all’attrice italiana Valeria Golino, quella che usciva con Tom Cruise ma baciava in ascensore il “Rain man” Dustin Hoffman. Com’era? Umido, decisamente umido. Forse meglio lo sciroppo d’acero. Ma ora non scambierei i tuoi baci per tutti i brunch del mondo. Perché non prendi più l’ascensore insieme a me? Perché non ti appoggi più a me mentre premo i bottoni? Interrogo pure Miranda, perché mi pare più tua amica rispetto a Shakespeare, e non solo perché mi hai detto di averla incontrata e che al college è poi entrata in camera tua e si è provata i tuoi vestiti. Deve averli raccattati da terra, per certo, e immagino non le sia importato troppo che fossero ricoperti di pelo di gatto. Se chiedo però a Miranda, pure lei mi risponde di «No». No, non mi vuoi più bene. A pagina 70 c’è scritto «disappointed». Mi comincia a venire l’angoscia.
Ho provato con Salinger, ma sapevo che lui tende a dire di no, dunque ero scettico già in partenza, il che di solito ingenera sciagura, come la mancanza di convinzione nel momento in cui si lancia la pallina per servire nel tennis. Se cominci a pensare che finirà in rete, se mentre fai il gesto ti immagini già di vedere la palla morire sulla rete, è già troppo tardi per impedire che accada. Apro A Perfect Day for Bananafish, perché ne abbiamo parlato e poi perché mi ricorda un tuo nickname. A pagina 23 c’è scritto «Yes». Non disperare, mi dico. E continuo. Anzi, no, meglio fermarsi, meglio stare contenti di questo «sì» strappato al vecchio Salinger e al suo riserbo scontroso. Ma ho bisogno di parlarti e tu non mi rispondi.
Apro allora i racconti di Flannery O’ Connor, che tu mi hai dato perché sai che amo Capote. Te ne sarò per sempre grato. C’è una tua dedica sul libro e questo rende tutto più difficile. Penso che non ti sbagliavi quando dicevi che un brav’uomo è difficile da trovare. Ma ora non mi sento più all’altezza, mi torna l’ansia. Sarà che rileggo quello che mi hai scritto. Com’è possibile che abbia smesso di essere vero? E quel linguaggio, l’idioletto del nostro farfugliare amoroso, chi riuscirà più a decifrarlo, a capirlo per davvero? Se non lo si legge con un sorriso in mente non lo si può capire fino in fondo, non si può prenderlo sul serio. Userai le nostre canzoni per altre relazioni? Mi viene il sospetto che io non sia stato il primo a cui tu abbia regalato i racconti della O’ Connor. Ma non voglio demoralizzarmi, chiedo al Misfit, non è uno che mente quando può dar dispiacere alla gente. Di lui stranamente mi posso fidare. A pagina 122 c’è scritto «Yes’m». Lo sapevo! Tiro un sospiro di sollievo, tu mi vuoi ancora bene. Non mi fido però, no, non mi fido più, lo so che nella vita non c’è vero piacere. Continuo, anche se il mio stato non ci trova alcun giovamento. L’alternanza di sì e di no mi destabilizza, non mi lascia tranquillo. Mi sento come uno dei tuoi sonni inquieti.
Mi voglio fare del male, prendo il libro di Carson McCullers. La dedica qui è più convenzionale, eppure mi pare sincera. Non scambierei il libro con la sua prima edizione autografata dall’autrice. Il che mi fa pensare…Sarà un caso che tutti i libri che mi regali sono scritti da donne? Apro il primo racconto, perché il titolo è una delle prima parole che mi hai insegnato. A pagina 4, quando mi domando se tu mi vuoi ancora bene, leggo «Sure» e poi, sotto, «You are a swell kid, Sucker». Ma non è abbastanza se penso come va a finire la storia. Anche tu certe volte mi fai così arrabbiare che se potessi ti ucciderei. Se vedi il mio sguardo, lo capisci. «More than anything I want to be easy in my mind».
Ma non mi fermo. Ormai è una spirale come di telefonate ossessive a cui tu non rispondi mai (per non sentire la tua voce, io ho cancellato i tuoi vecchi messaggi dalla segreteria telefonica). Ma la parola «swell» l’ho imparata da Frank Wheeler e allora prendo quest’altro libro che tu mi hai regalato. Mi hai regalato tanti libri, e mi piacciono tutti. Fai schifo a fare le pulizie domestiche, ma come sei brava a leggere i libri! Esito prima di aprire il romanzo, come prima di rompere un sortilegio. A pagina 31 c’è scritto «I guess not», ma subito con un istinto di sopravvivenza alzo lo sguardo e, all’inizio del paragrafo precedente, vedo che April aveva appena detto «Oh yes». Ma è difficile non disperare. So già di aver commesso un grave errore, come quando ho rivelato un tuo segreto (ma come hai fatto a fidarti di uno che legge l’explicit di ogni libro prima di cominciarlo?). Come posso aspettarmi che Frank e April mi salvino, quando ho disatteso il nostro patto su Yates? Quando mi hai regalato il libro mi hai chiesto di leggerlo solo insieme a te, ad alta voce. E mentre leggevo tu mi correggevi la pronuncia. Ti ricordi tra l’altro la mia teoria sulla voce? Se ti piace veramente qualcuno, allora non puoi non apprezzarne anche la voce, facci caso. Quando cominci a disinteressarti, prima di vedere che le mani non sono così affusolate, cominci a detestare la voce, poi certe espressioni, poi ti accorgi delle mani. Non vedi più la ciocca di capelli che ha sulla nuca, ma mentre ci giochi arricciandola con le mani, ti accorgi che il suo collo non è così lungo come vorresti (io i messaggi li ho cancellati perché la tua voce mi piaceva così tanto e questo non riuscivo più a tollerarlo). Ho finito Revolutionary Road da solo. C’è poco da aggiungere. Mentre tornavo a casa dalla biblioteca ero più triste del giorno in cui ti ho detto che ti volevo lasciare. Eppure a Parigi c’eravamo stati, e il libro lo avevamo portato con noi. Ce lo avevo sempre io che facevo attenzione a non rovinarne gli angoli. Odio i libri mal tenuti. Era con noi anche nella stanza senza bagno del Quartiere Latino, quella gialla con le finiture rosse. Mi domando se ti abbia mai dato le foto. Ce le ho, sai, se le vuoi basta chiederle. Ma sono troppo deluso da me stesso se penso a tutti i bei libri che mi hai regalato e se mi soffermo a pensate che Yates lo dovevo leggere solo con te.
Per dispetto, non so se più verso di te o contro me stesso, prendo un libro che mi ha regalato un’altra. Lo apro più volte senza trovare mai un segno. Ripeto l’operazione con metodica apprensione. Le cose che portavano non è un libro con molti sì e no. A pagina 30, ne trovo uno: un «no». E mi sta bene non dovevo tradirti interrogando quel libro. Ma a pag. 29, avevo intravisto il titolo dell’unico film che mi hai regalato, Bonnie and Clyde. Finalmente l’ho visto, sai? Bonnie and Clyde sta all’amore come Butch Cassidy all’amicizia. Si finisce in ogni caso col morire insieme, magari ammazzati, cosa che comunque contraddice la mia più grande convinzione, quella che ti ho sempre dispensato: ognuno è solo, e alla fine si muore.
Non mi dimentico che il primo libro che mi hai insegnato è stato Tender Buttons di Gertrude Stein. Una mattina ti eri svegliata e presto avevi detto: «Questo è un giorno in cui si dovrebbe leggere Tender Buttons»; poi mi avevi spiegato, con una familiarità che mi aveva impressionato, che il libro è diviso in tre sezioni: “Oggetti”, “Cibo” e “Stanze”. Io il libro ero subito corso a comprarlo, ma non c’ho ancora capito molto, forse per via della lingua. Una mia ex amica però ne ha tratto il testo che ha trascritto in un quadro quando era ancora mia amica: «Elephant beaten with candy and little pops and chews all bolts and reckless rats, this is this» (Un suono, da “Oggetti”). Perché tu facevi così, e la cosa mi faceva impazzire d’amore e di ammirazione. Un giorno ti alzavi e dicevi: «Oggi è una domenica in cui si dovrebbe rimanere a leggere tutto il giorno a letto le poesie di Gwendolyn Brooks». Ma oggi è lunedì e temo, purtroppo, che tu abbia già dimenticato domenica. Io no. Sono stanco. Sapere le cose non aiuta mai a volerle.
Basta coi tuoi libri. Cerco salvezza nei miei. Apro allora i racconti di Nabokov. Dov’eri domenica scorsa mentre io li leggevo nel parco lungo il fiume? Per rinnovato dispetto, contravvengo di nuovo alle norme. Non apro il libro a caso, leggo prima l’indice. A pagina 598 c’è un racconto che si intitola “Signs and Symbols”. Pare fatto apposta per questa mantica semiotica del mio destino amoroso. In tutto il racconto non c’è che un «No» (p. 602), spietatamente isolato da due punti.
Soltanto perché mi sento sopraffatto, ricorro per ultimo al mio libro di racconti preferito, Music for Chameleons. Il momento è definitivo, dunque comincio dall’ultima pagina. C’è scritto «Yes»! «Yes. We have God». Mi sento felice come Molly Bloom alla fine del libro. Dico tra me e me: «Yes yes yes». Sono contento. Ma non ho motivo di esultare a lungo. Se mi metto a leggere il racconto TC, in dialogo notturno con se stesso, dice: «I love you». TC risponde: «I love you too». E fin qua potrebbe sembrare una perfetta conferma delle mie taciute speranze. Ma poi continuo e leggo: «You’d better. Because when you get right down to it, all we’ve got is each other. Alone. To the grave. And that’s the tragedy, isn’it? (Fai bene. Perché alla fine dei conti, tutto ciò che abbiamo è l’un l’altro. Da soli. Fino alla tomba. E questa è la vera tragedia, non è vero?)».
Basta coi libri. Mi ricordo che ieri era domenica, dunque non mi sono scordato di te, come nella poesia di Gwendolyn Brooks. Ti cercavo tra la gente al concerto. Camminavo per le strade sperando di incontrarti. Mi predisponevo perché tu, arrivando all’improvviso da dietro, potessi sorprendermi, almeno un po’, venendomi incontro per abbracciarmi. Non sei venuta. E io che cercavo segni dappertutto. Conferme nelle cose, messaggi del tuo amore mai più confessato. Ero fermo su una banchina della metropolitana ad aspettare il treno. Facevo fotografie per documentare la città, ma i miei occhi non riuscivano a cogliere il bello, se c’era del bello ad aspettare di essere colto. Le foto erano tutte brutte, dozzinali. Poi ho visto la statua buffa di quell’elefante dal corpo allungato. Mi piaceva guardarti la schiena. C’era l’immagine degli elefanti che avevi visto in sogno.
Hai una schiena bellissima.
Grazie per i libri. Ma io i miei li rivoglio. Ridammeli.

                                New York, 13 luglio 2009
secondo disegno per il racconto


terzo disegno per il racconto

giovedì 17 luglio 2014

buongiorno, serie biro

disegno, serie biro

il lavoro, serie biro

ma tu pensa, serie biro

tuoni, serie biro

vinco o perdo sempre io, serie biro